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Filosofia e Medicina
“…nessun desiderio può generare la sua stessa soddisfazione, nessun giudizio si può giudicare vero da sé stesso, nessun ragionamento può concludere da sé stesso
di essere fondato…”
Charles Sanders Peirce
(Ippocrate, dipinto bizantino
del XIV secolo)
Filosofia e Medicina dovrebbero sempre essere considerate come due materie complementari. Sembra impossibile poter studiare il corpo umano e cercare di comprendere le modificazioni che questo attraversa durante la sua vita senza cercare di comprendere come la coscienza dell'uomo stesso si ponga davanti ai problemi di fondo della sua esistenza.
Questa separazione artificiosa, nata nell'Ottocento, ha provocato più di un guasto nel rapporto tra l'uomo ed il suo corpo e, soprattutto, nel modo con cui il medico affronta quella realtà ineludibile determinata dall'esistenza certa
della malattia e della morte.
I successi raggiunti nel prolungare i termini della vita biologica degli esseri umani non sempre hanno avuto un corrispettivo in una migliore e più consapevole comprensione del prezzo a cui erano stati ottenuti.
Spesso il superamento di alcune difficoltà tecniche, che hanno permesso di guarire da malattie importanti, è stato considerato come l'unico risultato veramente degno di nota. Si è invece trascurato di osservare come l'avanzamento in determinati campi della salute e solo per determinate nazioni o popolazioni, potesse estendere il territorio dell'ineguaglianza e dell'ingiustizia.
I testi che state per leggere intendono promuovere una maggiore consapevolezza dei rapporti che intercorrono tra le Scienze Biologiche, la Medicina e la Filosofia. L'antidoto al senso di estraneazione e di impotenza, che colpisce molti operatori sanitari, può trovare una sua ragionevole risposta nello studio del processo conoscitivo che ha portato al costituirsi della scienza e del sapere scientifico e, di converso, a quella sua forma e parte, di originale natura e finalità, che è data dalla Medicina.
Medicina e Filosofia
nel Medioevo
Il passaggio del capodanno dell’anno Mille, segnò un momento importante per tutta l’Europa cristiana. Ne troviamo una descrizione famosa nel libro di Cronache di Rodolfo il Glabro, monaco di Cluny, vissuto tra il 985 ed il 1047. Questo testo, ricco di episodi immaginifici e dalla narrazione affascinante, racconta il risvegliarsi del desiderio di vivere fiorito in Europa dopo l’inizio del secondo millennio: ”…la terra, come scrollandosi e liberandosi dalla vecchiaia, si riveste di un fulgido manto di nuove chiese…”.

Il terrore escatologico legato alla fine del primo millennio si era sciolto. Il mondo non era finito, come avevano predetto molti alla mezzanotte dell’Anno Mille e l’Umanità continuava la sua vicenda terrena. Un ottimismo esistenziale sembrava pervadere l’Occidente.
L’Europa si trovò in quei decenni dopo il Mille in una situazione demografica particolare. In alcune regioni, come l’odierna Francia, la valle del Reno e più a Nord, fino a quelli che diventeranno i Paesi Bassi, la popolazione era cresciuta in modo elevato, creando uno squilibrio relativo tra le risorse alimentari disponibili e gli esseri umani, che da queste dovevano essere sostentati. Alla base del grande sviluppo demografico che si verificò in Europa tra l’XI ed il XII secolo bisogna collocare due fenomeni importanti: il miglioramento delle tecniche di coltivazione e l’aumento della superficie delle terre coltivabili. Il primo di questi fenomeni è costituito dall’introduzione e dall’uso generalizzato e con maggior penetrazione nelle regioni settentrionali europee, dell’aratro a versoio, a volte anche montato su di un telaio a ruote. Questo attrezzo era nettamente più efficace dell’antico aratro romano a lama singola, leggero e capace unicamente di scavare solchi non troppo profondi. L’aratro a versoio, ideato nelle grandi pianure del Nord Europa, richiedeva l’utilizzo di forti animali da traino, come coppie di buoi o cavalli da tiro, che venivano utilizzati spesso affiancati ed imbrigliati da un’altra utile innovazione, il collare da spalla. Altro fenomeno importante, fu l’introduzione generalizzata della rotazione triennale delle colture in sostituzione di quella biennale, che favorì un buon miglioramento delle rese agrarie.

Parallelamente, si procedette ad una vasta colonizzazione delle superfici incolte, attraverso grandi opere di bonifica e la fondazione di nuove comunità rurali con l’edificazione di vere e proprie cittadine, le ville nove, da parte dei coloni dediti alla coltivazione delle terre sottratte alle paludi ed ai boschi. Città dell’Europa contemporanea, come Neuchatel o Newcastle, recano ancora nei loro nomi i segni di questo periodo storico.

Tra la fine del secolo XI e la Peste Nera che devastò l’Europa a partire dal 1347, la popolazione in alcune regioni del Vecchio Continente crebbe di oltre tre volte. Questa tensione demografica fornì il materiale umano che alimentò per circa due secoli il succedersi delle Crociate e contribuì inoltre alla rinascita delle città come luoghi di scambio e di cultura. Anche la medicina conobbe una profonda mutazione, di tipo prima ideologico, nel suo confrontarsi con la malattia, che dogmatico e scientifico.

Nell’Alto Medioevo la distinzione tra malato, pellegrino, vagabondo e se vogliamo, tra normalità ed ogni elemento di devianza sociale, era estremamente vaga. La povertà era una presenza onnipresente, tanto che, nel medioevo barbarico (VII-X secolo d.C.), la sua rilevanza tra la popolazione generale arrivò ad interessare una percentuale di soggetti tra il 25 ed il 40 %. Si trattava, specie in Occidente, di un serbatoio di disperati cui avrebbero in parte attinto i movimenti che diedero origine alle Crociate. In Oriente i poveri costituivano spesso un problema non secondario di ordine pubblico nelle grandi aree urbane, come Costantinopoli o Tessalonica.
Il concetto stesso di malattia, utilizzando il termine “infirmitas”, poteva rivestire valenze anche positive. La sofferenza, il dolore e l’alterazione visibile del corpo, riproducevano le sofferenze del Cristo crocefisso nell’essere del malato. Questi viveva quindi un duplice ruolo: da un lato testimoniava, con la corruzione del proprio corpo, la presenza di colpe di cui la malattia si faceva dichiarazione e manifestazione evidente, dall’altra, attraverso la sua imitatio del Cristo sofferente, poteva pervenire alla guarigione dell’anima, prima che del corpo. La figura del Salvatore assumeva pertanto una doppia potenzialità ed essenza: quella di medico dell’anima e quella di malato Lui stesso, che si era fatto carico dell’imperfezione e della sofferenza umana per donare la salvezza all’uomo. Si tratta di un concetto già evidente nelle opere di papa Gregorio Magno (VI-VII sec. d.C.), ma che persisterà lungo tutto l’arco temporale del Medioevo:

“…mortali infirmitati subditis eramus, sed celestis medicus dignitatus est non solum venire ad curandum fetendissimam lepram Humani generis, sed etiam pati eamdem infirmitatem et ex ea mori…“
“…eravamo sottomessi ad una malattia mortale, ma il medico celeste, si degnò non solo di venire a sanare l’orrenda piaga del genere umano, ma anche a soffrire ed a morire per questa stessa ragione..."
Stefano Langton, Sermones, XII secolo

In questo contesto, la principale modalità curativa della medicina altomedievale risultava la pazienza. Come predicato da Gregorio Magno, nelle sue “Admonitiones ad aegros” (Consigli per gli infermi), viene utilizzata una pedagogia della sofferenza, che insegna a sopportare con cristiana rassegnazione le infermità. Queste sono capaci di salvare l’anima dell’uomo peccatore e mortale, attraverso il potere redentore del dolore e della debolezza del proprio corpo. D’altronde, la medicina altomedievale, specie nell’Occidente europeo, non disponeva certo di una grande capacità di guarigione, vista la precarietà della vita quotidiana, destabilizzata da secoli di guerre, invasioni barbariche, carestie ed epidemie, che assumevano nell’immaginario degli uomini di quel periodo le connotazioni di punizioni divine per colpe di cui a loro stessi non era dato di conoscere interamente nemmeno tutti i significati.
Nell’Europa dell’XI e XII secolo, che usciva faticosamente da lunghi periodi di miseria e di durezza dell’esistenza quotidiana, centro della vita cittadina era la cattedrale o chiesa capitolare. Fu sotto l’egida dei vescovi che vi dimoravano nel palazzo contiguo, che vennero create le prime scholae, annesse alla cattedrale, dove si insegnavano le Arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia). Queste costituirono la preparazione di base per chi doveva poi accedere agli studi superiori. Ma le scholae furono anche il nucleo primario da cui derivarono le università moderne. Intorno alla fine del XII secolo, l’Università di Parigi divenne la più prestigiosa delle sedi di studio. Nelle sue facoltà superiori (Medicina, Diritto e Teologia), avvenivano i confronti culturali più vivaci ed insegnavano i docenti più celebri del tempo.
Un dato deve essere ben chiaro: lo studente medievale prima ed il medico poi, non potevano neppure pensare di potersi accostare alla loro attività professionale, senza aver prima studiato i fondamenti della Logica. Questa era la disciplina che costituiva la base di ogni modalità di apprendimento. Se vogliamo darne una definizione facilmente comprensibile per il lettore moderno, dobbiamo definire la Logica medievale come la disciplina che si occupa di determinare la verità o la falsità di una proposizione.
Si trattava prima di tutto di apprendere una tecnica di validazione semantica del discorso, che valesse per qualsiasi esposizione scritta o verbale o disciplina studiata. Il termine di confronto era basato sullo studio della composizione della proposizione, lo strumento idoneo ad accertare la veridicità di un enunciato. Una qualsiasi frase doveva essere caratterizzata da regole ben codificate, che impedissero di utilizzare proposizioni dotate d’ incongruenze interne, capaci di annullare la significatività di quanto esse descrivevano. Per dare un esempio concreto, che possa far intendere meglio l’importanza rivestita dalla precisione semantica per uno studioso medievale, leggiamo una definizione della parola “nome”, presente nell’opera del famoso grammatico Prisciano, vissuto nel VI secolo d.C., la cui lettura era obbligatoria per chiunque volesse studiare una disciplina universitaria nell’Europa medievale:
"…proprium est nominis substantiam et qualitatem significare…"
Prisciano, Institutiones grammaticae, II, 18
cioè: “è caratteristica di ogni nome spiegare la propria sostanza e la propria qualità”. Quindi, ad esempio, la parola «uomo» indica un essere umano in quanto individuo, ma contemporaneamente, può essere riferimento della sua «qualità», definendo allora l’«umanità» del nome stesso. Questa è la forma della parola, la quale fa sì che un termine del discorso sia realmente ciò che rappresenta.
Per un uomo moderno questa attenzione quasi maniacale al linguaggio può sembrare difficile da comprendere. Si tratta di una concezione che deve essere valutata nel contesto della visione del mondo dell’uomo medievale. In questo ambito la parola poteva assumere un significato sacrale, in quanto caratteristica principale degli esseri umani e dono di Dio, mentre il linguaggio differenziava le persone ed i fedeli dagli animali. Non era quindi lecito utilizzarlo in modo improprio, ma era importante alternarlo al silenzio, territorio di dominio della riflessione interiore e di apertura dell’anima a Dio.

La nascita delle scholae, dopo il Mille, erose lentamente questa visione essenzialmente monastica e claustrale del linguaggio. Nonostante l’intervento di personaggi dotati di grande carisma ed eccezionali capacità dialettiche, come Bernardo da Chiaravalle (1091-1153), che rivendicava la preminenza della fede sullo studio e la cultura, il ruolo delle università divenne sempre più importante. Luoghi di studio e di dibattito, queste sedi, detentrici del sapere del tempo, dovettero innanzitutto dotarsi di un linguaggio condiviso, come appunto il latino, ma anche di uno strumento di verifica e di controllo dell’attendibilità di quanto veniva comunicato: la Logica. Questa seguiva un elaborato codice di regole, prendendo in esame ogni inferenza di una singola parola rispetto ad un’altra.
La Logica non veniva dal nulla. Era una disciplina che affondava le sue radici in un passato autorevole, provenendo da due grandi correnti di studio del linguaggio e del pensiero, nate durante l’Antichità classica:
· la Logica aristotelica o Logica dei termini (predicati e classi), che raggiungeva la sua massima espressione nella sillogistica;
· la Logica megarico-stoica, o Logica proposizionale, che studiava le inferenze tra loro delle varie parti di un discorso e le funzioni di verità contenute nelle frasi;
La Logica che veniva insegnata come propedeutica alla medicina nelle università medievali era una logica essenzialmente dei termini, a sua volta divisa in ars vetus (costituita dai testi noti prima delle grandi traduzioni di Aristotele avvenute nell’XI e XII secolo) ed ars nova (conseguente alla conoscenza di quanto aveva scritto Aristotele in proposito ed alle opere dei suoi commentatori arabi, come Averroè). L’insieme complessivo di queste due correnti di pensiero, veniva definito come logica antiqua. A partire dal XIII secolo, venne introdotto lo studio della logica modernorum, in cui la parte rivestita dalla logica proposizionale divenne più rilevante, a scapito della logica dei termini. Testo importante della logica modernorum era il Tractatus di Pietro Ispano, singolare figura di medico e pensatore, nato a Lisbona all’inizio del 1200 e morto nel 1277, dopo essere divenuto papa con il nome di Giovanni XXI.
Altro testo molto studiato erano le Introductiones in logicam di Guglielmo di Sherwood ( XIII secolo), utilizzato soprattutto in Inghilterra, dove la Logica si era
evoluta con connotazioni lievemente differenti rispetto al resto del continente europeo e dove venivano studiate con particolare attenzione le leggi della fisica, come l’ottica e le teorie sulla luce, presso la Scuola di Oxford. Un giovane allievo delle università del XIII e XIV secolo doveva in ogni caso confrontarsi con questi testi, qualsiasi fosse la disciplina od arte superiore (Medicina, Legge, Teologia) in cui desiderasse addottorarsi.
Nessun medico, che si potesse definire tale, poteva dunque esimersi dal conoscere i fondamenti della Logica. Alcune letture in tal senso, di cui abbiamo dato una citazione all’inizio di questo capitolo, erano fondamentali ed obbligatorie. Non si poteva leggere Aristotele e comprendere la sua concezione della natura, senza possedere gli strumenti culturali indispensabili per intenderlo. Le lezioni, nelle università dell'Europa medievale, avevano sempre uno svolgimento costruito su di una scrupolosa aderenza al testo in esame. La logica dei termini risultava indispensabile per affrontare le pagine di studio, visto che l’autorità di queste non poteva essere messa in discussione e ci si concentrava sulla comprensione delle diverse parti del discorso, stando attenti che il commento al testo non contenesse errori logici, che potessero inficiarne irrimediabilmente la validità, come contraddizioni tra le parti di quanto enunciato. Si pensi che solo per quanto riguarda i sophismata insolubilia, cioè quelle proposizioni che prese alla lettera si possono contraddire, Alberto di Sassonia (1350, circa), nel suo trattato dal titolo Perutilis logica, ne enumera ben diciannove tipi differenti!
Il medico medievale acquisiva, attraverso gli strumenti culturali che abbiamo descritto, una conoscenza raffinata delle opere dei maestri del passato, dei quali era consentito elaborare gli insegnamenti e commentarli, ma in nessun modo metterne in dubbio la veridicità.
La medicina delle università medievali era così strutturata su quattro ben precisi livelli epistemologici:
· la pars teorica
· la pars practica
· la scienza operativa
· l’opus od intervento specifico
Questi livelli d’intervento erano disposti in modo tale da poter comprendere ogni tipo d’informazione da apprendere per completare il proprio curriculum studiorum e da essere pronti a derivare dalla teoria alla pratica, attraverso il tirocinio effettuato presso un magister medicinae affermato e riconosciuto.
Si trattava di una tecnè (arte in senso greco), amputata in parte dell’insegnamento sul malato, con tutte le gravi conseguenze in proposito, anche se formalmente un buon medico poteva essere definito tale se applicava alla lettera, con rigore quasi filologico, gli insegnamenti della tradizione riconosciuta come tale, indipendentemente dalle conseguenze delle sue scelte sulla vita del paziente.
Questa fatica veniva però ben ricompensata. Il medico che usciva da tali università poteva utilizzare tutto il peso del prestigio dato dal suo titolo di studio. Il suo parere era determinante e relegava in una nicchia sociale cerusici, ciarlatani e guaritori. In conclusione, l’università medievale formava il medico attraverso tre modalità:
I) una preparazione culturale di base, che comprendeva gli studi di logica, filosofia naturale e le arti liberali. A queste discipline veniva accompagnata la conoscenza delle opere dei maggiori autori dell’Antichità, con l’apprendimento e la rivisitazione delle regulae e dei canones presenti in queste letture, che dovevano essere illustrati seguendo le norme della logica;
II) attraverso questa preparazione di base il medico poteva affrontare i problemi legati alla sua professione, che egli stesso era in grado di risolvere con l’armamentario razionale delle regole teoriche e dell’attività pratica. Non rientravano nei suoi compiti la spiegazione dei “miracoli” o degli accidenti difficilmente comprensibili, di cui poteva farsi origine la variabilità propria dell’oggetto d’intervento della medicina, il corpo umano appunto;
III) solo il medicus doctoratus, cioè che ha studiato e si è formato nelle università, detiene il sapere istituzionalmente “vero” e “certificato” da un punto di vista dogmatico, in accordo con gli articoli di fede insegnati dal capitolo della cattedrale cittadina. Forte di questa posizione di egemonia culturale, questo medico può dichiarare non pertinenti e fuori legge interventi terapeutici praticati da guaritori non ufficiali, che dispongono solo di un sapere empirico e popolare.
Il medico di formazione universitaria riveste inoltre un ruolo di autorità indiscussa nei confronti di operatori sanitari da lui autorizzati, ma di un livello gerarchico inferiore, come i barbieri, i chirurghi, le ostetriche ed i farmacisti. Tale gerarchia degli operatori di attività sanitarie appare particolarmente rigida e difesa con determinazione corporativa dai medici, che appartengono al suo livello più alto.
Tuttavia, la medicina medievale non era un corpus statico e non era estranea ad un continuo dibattito culturale ed epistemologico, che troverà nel XIII e XIV secolo importanti riferimenti e posizioni originali. Risentirà soprattutto dei nuovi sviluppi del pensiero, che un approccio filosofico più originale ed innovativo al problema della conoscenza introdurrà in quegli anni. Ne discuteremo qui di seguito le caratteristiche e gli influssi.
Scienza, Teologia
e Logica medievale
Pietro D’Abano (1257-1315), maestro di medicina e filosofia, trascorse la sua vita d’insegnamento presso l’università di Parigi ed in seguito a Padova. La sua visione culturale ed epistemologica è improntata ad un tentativo di conciliazione delle varie discipline scientifiche. Una sua opera significativa reca infatti il titolo di Conciliator differentiarum ed in essa Pietro assegna alla medicina un ruolo di eccellenza, grazie al patrimonio organico di conoscenze di cui questa parte del sapere dispone. Medicina e filosofia sono strettamente legate per quest’ autore, che giunge a definirle sorelle. Le sue tesi non furono tuttavia considerate ortodosse dalla Chiesa del tempo. Inquisito per eresia, venne condannato post mortem ed il cadavere riesumato e dato alle fiamme.
Questa vicenda è significativa, perché illustra in modo esemplare i rapporti stretti che intercorrono nel pensiero medievale tra filosofia della natura, medicina e teologia. Sono interconnessioni inestricabili, tanto che appare quasi impossibile trattare una di queste materie senza valutare i suoi collegamenti con le altre due.
Un problema di fondo, che pervade tutta la filosofia medievale, è quello di comprendere e delimitare con sicurezza i ruoli svolti dalla fede e dalla ragione in rapporto alla conoscenza del mondo. Una comprensione scientifica del succedersi causale degli eventi deve innanzitutto basarsi su di una scienza affidabile. Per l’uomo medievale scienza è un sapere organizzato, un insieme di conoscenze dotato di una validità assoluta, ma legata comunque al mondo della natura.
Soprattutto durante il massimo fiorire della Scolastica (XIII secolo), si tenne in gran conto l’insegnamento aristotelico, secondo il quale la scienza è una conoscenza di tipo dimostrativo, cioè è basata sulla consapevolezza che l’oggetto di studio è tale per delle cause che bisogna comprendere. Questa comprensione porta a considerare, seguendo l’insegnamento di Aristotele, che “un oggetto non può essere diverso da quello che è” (Analitici,I). Conoscere attraverso un procedimento scientifico viene a rivestire quindi connotazioni di necessità e purtroppo, posso aggiungere, la necessità è spesso considerata arbitrariamente parente prossima di un volere divino trascendente.
Questa relazione di fondo tra conoscenza attraverso la ragione e conoscenza attraverso la fede, attraversa come un filo rosso tutto il dibattito culturale medioevale sulla natura del sapere e sulla finalità dell’atto conoscitivo. Conoscenza che oltre che scientifica, rivolta cioè alle cose della natura, è anche sapienza somma, cioè Teologia, quindi conoscenza di Dio. Mentre la struttura dell’insegnamento universitario medioevale si consolidava, durante il XII e XIII secolo, il confronto tra teologia e scienza procedeva di pari passo, trovando soluzioni di equilibrio a volte provvisorie ed in altre circostanze di maggiore efficacia e stabilità.
Tommaso d’Acquino, intorno al 1254, compie uno sforzo metodologico di sistematizzazione del problema, utilizzando i concetti principali della fisica aristotelica ed adattandoli con genialità ed in un certo senso, con scaltrezza, alla realtà della visione cristiana del mondo. Scrive Tommaso, utilizzando il principio aristotelico della subalternatio, cioè della dipendenza funzionale e gerarchica tra le discipline scientifiche, secondo il quale, ad esempio, la farmaceutica è subalterna alla medicina:
“…chi possiede una scienza subalternata non raggiunge pienamente i principi di una scienza superiore, se non in quanto la sua conoscenza [del problema] è continuazione della conoscenza di colui che possiede la scienza subalternante…”
Tommaso d’Acquino, De Veritate
Attraverso questa interpretazione del sapere razionale, Tommaso arriva a giustificare il carattere di vera e propria scienza rivestito dalla teologia: esiste quindi una Teologia divina, cui solo i beati possono attingere ed una Teologia umana, che viene insegnata nelle università, al pari di tutte le altre scienze. Si trattava di un espediente, che permetteva di dimostrare come anche gli infedeli (e Tommaso pensava probabilmente ai commentatori arabi di Aristotele) potessero arrivare a comprendere una parte delle verità della fede cristiana, utilizzando la scienza teologica e le sue conclusioni.
Questa visione intellettuale, che accoglieva in modo enfatizzato i presupposti delle conclusioni aristoteliche, portò ad una radicalizzazione dello scontro all’interno dei pensatori e dei teologi cristiani tra chi aderiva all’insegnamento aristotelico e chi invece propendeva per una visione più fideistica nella comprensione delle verità rivelate dall’annuncio cristiano. Lo scontro assunse caratteristiche molto accese e divise per decenni i due schieramenti. I sostenitori di Aristotele vennero accusati spregiativamente di essere degli averroisti e di sostenere la teoria della doppia verità, formulata appunto da Ibn Rushd (Averroè), che abbiamo descritta in precedenza, secondo la quale due erano i livelli della comprensione delle verità di fede, quello riservato ai filosofi (e quindi agli insegnanti di teologia di formazione aristotelica) e quello che Dio concedeva per fede alla gente più umile e sprovveduta.
Il contrasto non poteva proseguire per molto tempo, anche rimanendo su di un piano puramente dialettico, senza provocare una reazione delle autorità ecclesiastiche: nel 1277 il vescovo di Parigi Stefano Tempier emanava un decreto di condanna delle posizioni degli averroisti, articolato in 219 tesi. In questo decreto, che provocò tra l’altro la messa al bando di pensatori ed insegnanti famosi, come Sigieri di Brabante (1240-1284), veniva formulata, con una precisione lessicale che a noi moderni può apparire quasi maniacale, l’accusa, rivolta ad una parte del corpo docente dell’università di Parigi, di non accontentarsi del grado di verità che la comprensione del mondo attraverso la fede poteva fornire, ma di avere eletto Aristotele a maestro di una modalità alternativa e di pari dignità di conoscenza, grazie all’ indagine razionale sulla natura presente nella sua filosofia.
La difesa dei professori di teologia e delle altre Arti, che seguivano la corrente aristotelica, fu strenua e portata con tutti gli strumenti della logica e della dialettica. Scrisse Tommaso di Wylton, pochi anni dopo, agli inizi del Trecento, introducendo la distinzione tra probabilitas e veritas:
“…esistono dimostrazioni che procedono immediatamente da proposizioni per sé note (evidenti), come le dimostrazioni matematiche. In senso diverso, si dicono dimostrazioni tutti quegli argomenti che spingono l’intelletto ad aderire ad una opinione liberandolo dal dubbio di errare, anche se molti sostengono l’opinione contraria in base ad argomenti probabili e difficilmente confutabili. Le argomentazioni di Aristotele sono tali solo in questo secondo senso: con esse egli ricerca la verità nel campo dei principi naturali…”
da Tommaso di Wylton, Quodlibet
Si avverte in queste righe una rivendicazione di libertà speculativa da parte dell’intellettuale, che cerca di ritagliarsi un suo spazio di riflessione e d’insegnamento al di fuori del recinto opprimente della cultura ufficiale, controllata dai teologi organici alla gerarchia ecclesiastica. Ma i margini di manovra, per chi rivendicava l’importanza della ragione e la possibilità di studio indipendente, si erano fatti sempre più ristretti. Anche lo stesso Sigieri, dopo un iniziale tentativo di conservare la propria autonomia di filosofo, dovette capitolare, passando da dichiarazioni come questa:
“…noi [maestri delle Arti, cioè i professori ribelli dell’Università di Parigi] qui cerchiamo soltanto il pensiero dei filosofi e soprattutto di Aristotele, anche nel caso che questi abbia un’opinione diversa da quella che la Verità e la Sapienza hanno insegnato attraverso la Rivelazione…”
da Sigieri di Brabante, De anima intellectiva
alla formulazione che segue:
“…poiché il filosofo, per quanto grande, può errare in molte cose, non si deve negare la verità cattolica a causa della ragione filosofica…”
da Sigieri di Brabante, Quaestiones in Metaphysicam
ed infine:
“…nel dubbio, si deve aderire alla fede, che supera la ragione…”
da Sigieri di Brabante, De anima intellectiva
Come si vede, si trattò di un brusco allineamento ideologico su posizioni meno pericolose. Quest’autocritica procurerà a Sigieri un posto nel Paradiso di Dante, vicino a S. Tommaso d’Acquino, ma confermò ancora una volta, se ce ne fosse stato il bisogno, quanto poteva essere difficile mantenere un’indipendenza intellettuale in questioni che mettevano in discussione le posizioni ufficiali della Chiesa.
Abbiamo accennato in precedenza alla Scuola di Oxford ed all’originalità del dibattito intellettuale sulla conoscenza della natura che si svolgeva presso quella sede. Di questa scuola fa parte anche il francescano Ruggero Bacone o Roger Bacon (1214/20-1292), ma da essa si distacca per la capacità e l’ambizione di fornire un sistema di approccio conoscitivo alla realtà di tipo scientifico, organico e complessivo.

Tipico della Scuola di Oxford e del suo maestro, Roberto Grossatesta (1168-1253), è il paragone che Bacone fa tra il diffondersi e l’agire della luce ed il principio di causalità: ogni oggetto visibile genera immagini di sé, che a loro volta provocano il formarsi di immagini mentali, responsabili della conoscenza di un fenomeno naturale.
Esiste una metodologia che permette di interpretare correttamente queste percezioni. Questa è data dalla matematica e dalle sue leggi, anzi, in particolare, dal rigore della geometria euclidea, cui Ruggero Bacone attribuisce la capacità di collegare il piano dell’ideazione mentale di un oggetto, con quello della realtà percepita. La matematica è dunque essenziale per comprendere la natura dei fenomeni osservati:
“…dopo aver dimostrato che per i latini le radici della sapienza si trovano nelle lingue, nella matematica e nella prospettiva, mi propongo adesso di tornare sui principi della scienza sperimentale, perché senza esperienza nulla si può conoscere a sufficienza.
Due sono infatti i modi di conoscenza: per via del ragionamento e per via dell’esperienza: la dimostrazione conclude e fa sì che noi accettiamo la conclusione, ma non ce ne rende certi e non toglie il dubbio in modo da far acquietare completamente la nostra mente nell’intuizione della verità, se questa non trova la sua conferma nell’esperienza…”
da Ruggero Bacone, Opus Majus,6
Parlare di scientia experimentalis non significa, in questo contesto, intendere una metodologia di tipo seicentesco, basata sulla verifica pratica di un presupposto teorico, come verrà ipotizzato da Francis Bacon o Galileo. Scienza sperimentale è non disdegnare di occuparsi con rispetto e comprensione della sapientia delle persone più umili, è riconoscere anche in questa il riflesso di una sapientia più elevata, che ha come fine ultimo l’unitarietà di tutte le discipline scientifiche e la salvezza dell’anima:
“…da un unico Dio tutta la sapienza è stata data a un’unica umanità, per un unico fine…unica è anche la via verso la salvezza, se pure i gradi verso di essa sono molteplici; ma la sapienza è la via verso la salvezza. Ogni studio umano che non sia rivolto alla salvezza è pieno di cecità e conduce all’oscurità dell’inferno; per questo motivo, molti sapienti famosi del mondo vanno alla dannazione, perché non possedettero una vera sapienza, ma una sapienza apparente e falsa e quindi, credendosi sapienti, divennero stolti, secondo quanto dice la Scrittura…”
da Ruggero Bacone, Opus Majus,3
La sua capacità di considerare tutte le realizzazioni dell’uomo su di un piano di sostanziale parità, porta Ruggero Bacone ad annullare la separazione aristocratica tra intellettuale e colui che esercita un’attività manuale. Ogni realizzazione umana acquista una sua dignità, che permetterà alla scientia di migliorare le condizioni di vita degli uomini, fino ad esiti impensabili per i suoi contemporanei. Egli giunge così ad ipotizzare macchine volanti, macchine che permettano di esplorare il fondo dei mari e macchine che non abbiano bisogno dei muscoli dell’uomo o degli animali per essere mosse (De secretis operibus).
Nella sua avversione per il sapere accademico istituzionale, che non si cura di quanto la ricchezza della realtà e del mondo possano insegnare, Bacone indica con chiarezza tre tipologie di errore che si possono commettere nella ricerca del sapere scientifico:
· il ricorso ingiustificato all’autorità (auctoritas), per nascondere la propria ignoranza, facendosi scudo del prestigio di un autore e delle sue idee;
· la sottomissione acquiescente e priva di critiche alla tradizione, per astenersi dal compiere una ricerca originale, che potrebbe ribaltare il modo di affrontare e valutare un problema;
· l’accettare come provato dall’esperienza, una visione della realtà che è invece solo basata sulla consuetudine dei molti, sul conformismo intellettuale, che evita di prendersi dei rischi;
Come si vede, il pensiero di Ruggero Bacone è disseminato di elementi estremamente scomodi per il mondo culturale ufficiale ed anche per le gerarchie ecclesiastiche, che su di esso in parte si appoggiavano ed a cui conferivano garanzia di autorevolezza. In un certo senso, le idee di questo filosofo sono “in anticipo” sul tempo in cui visse, anche se una visione profondamente fideistica del sapere scientifico lo rende un uomo ancora autenticamente medievale. Ma le cose stanno cambiando, anche se lentamente. Gli stati nazionali cominciano a ritagliarsi il loro spazio e non sopportano più la dipendenza ideologica ed a volte anche diretta ai voleri della Chiesa. Si pensi al celebre episodio dello schiaffo di Anagni (1303), ai danni di papa Bonifacio VIII, verificatosi con il tacito appoggio del re di Francia Filippo il Bello.
Questa diversa atmosfera politica farà da sfondo al nascere di idee nuove, a originali formulazioni del concetto di causalità, che recano in sé il seme di una rivoluzione scientifica destinata a mutare i presupposti stessi dell’attività umana, in medicina ed in ogni altra “arte”.

Gugliemo di Ockham (1285-1347) è il pensatore che racchiude nella sua vicenda umana e nel suo percorso di ricerca filosofica, tutte le istanze e le aspettative di un’epoca che sentiva vicina ad essa i motivi di un cambiamento radicale e che trovò invece il suo tramonto nell’immane epidemia di peste del 1347-1350, che devastò l’Europa provocando tra i 20 ed i 30 milioni di morti. Anche Ockham è un francescano, nato nel Surrey, vicino a Londra. Trascorse i primi anni da docente, tra l’università di Oxford ed il convento francescano di Londra. I suoi insegnamenti, favorevoli ad una visione politica che ridimensionasse il potere papale a favore delle decisioni dell’assemblea conciliare e che si rifacevano all’ideale evangelico di povertà, tanto apprezzato dall’Ordine Francescano, ne provocarono la convocazione ad Avignone, allora residenza del papa, nel 1324.
In quella città venne inquisito per quattro anni da una commissione, presieduta dal cancelliere dell’università di Oxford, che esaminò i contenuti delle sue opere. Poco prima, nel 1322, il capitolo generale dei Francescani di Perugia, con una decisione che aveva destato molto clamore, aveva esaltato la povertà di Cristo e degli Apostoli, stabilendo che essi non avevano posseduto nulla e richiamando al loro esempio i religiosi dell’Ordine.
Ad Avignone, nel 1327, Ockham incontrò il generale dei francescani, Michele da Cesena, anche lui convocato presso la sede papale per discolparsi del sostegno dato alla teoria della povertà evangelica, che era stata condannata con una serie di bolle da papa Giovanni XXII nel 1324. Nel 1328, alla vigilia di una possibile condanna, dopo che nel 1326 la commissione pontificia aveva già espresso un parere negativo su 51 proposizioni contenute nei suoi scritti, Guglielmo di Ockham fuggì da Avignone insieme a Michele da Cesena e si recò a Pisa, presso l’imperatore Ludovico il Bavaro, che seguirà poi a Monaco, in Germania.
Gli anni dell’esilio sono dedicati alla composizione di una serie di opere rivolte contro il potere temporale dei papi e la pretesa di costoro di avere la supremazia nei confronti dell’autorità imperiale. La grande epidemia di peste lo sorprende nel 1347 o forse nel 1349, ponendo fine alla sua vicenda terrena.
Il pensiero epistemologico di Ockham riprende in parte quella che era stata, solo pochi decenni prima, l’idea di sapere scientifico secondo Giovanni Duns Scoto (1266-1308). Per questi, professore di logica presso l’università di Parigi, l’oggetto di una ricerca scientifica conteneva in sé, in potenza, la percezione delle verità cui tendeva la ricerca stessa e la finalità cui il ricercatore voleva giungere. Raggiungere una verità causale, voleva dire ottenere una dimostrazione evidente di un rapporto causa/effetto a proposito di un determinato accidente. La limitazione dell’uomo terreno, il viator, che non aveva ancora raggiunto la perfezione data dalla visio beatifica di Dio, costringeva l’indagine scientifica a rimanere su di un livello inferiore di conoscenza, legato solo a ciò che era visibile e quindi, evidente.
Il discorso epistemologico di Ockham è molto più radicale ed innovativo riguardo a quella che è la tradizione medievale sull’argomento. Fondamentale è la sua distinzione tra conoscenza intuitiva e conoscenza astrattiva.
La conoscenza intuitiva è la modalità che ci permette di sapere se un oggetto esista o meno. L’intelletto, attraverso i sensi, formula un giudizio sulla realtà e ne trae un convincimento sull’ esistenza di una cosa, o meglio, se vogliamo usare un termine caro ad Ockham, di un ente.
Per dirla con le parole dello stesso Ockham, la conoscenza intuitiva è:
“…la conoscenza in virtù della quale si può sapere se una cosa esiste o non esiste, di modo che, se una cosa esiste, subito l’intelletto la giudica esistente e conosce con evidenza che essa è…”
da Guglielmo di Ockham, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo
La conoscenza astrattiva invece, non necessita dell’esistenza reale di un oggetto o di un ente per formulare un giudizio di esistenza. Essa trae origine dell’esperienza che gli fornisce la conoscenza intuitiva e può formare un giudizio completo su di un argomento anche in assenza del fatto che lo ha generato, ma non può certificarne l’esistenza. Ritengo utile a questo punto, fare un piccolo esempio pratico: se io vedo una persona in carne ed ossa, come il mio amico Attilio, egli esiste, viene percepito come tale da me ed io ho di lui una conoscenza intuitiva. Se però Attilio non è più presente, io ne conservo la conoscenza attraverso un processo di astrazione mentale, basato sulla consapevolezza diretta ed intuitiva del suo essere, che ho avuto in precedenza: questa è la conoscenza astrattiva secondo Ockham. In questa distinzione tra le due forme di conoscenza è presente, appena mascherata, un’idea rivoluzionaria.
Se soltanto la conoscenza intuitiva è in grado di interagire direttamente con la realtà, solo con questa è possibile valutare una sequenza causa/effetto che intervenga nel mondo concreto, come è osservabile dai sensi. Alla conoscenza astrattiva, per la sua natura mediata, come abbiamo visto, è negato formulare un giudizio di esistenza valido. In questo modo, l’unica formula affidabile di sapere, che ci permetta di comprendere il mondo sensoriale, diventa quella basata sull’esperienza empirica, sulla conoscenza che formula giudizi su cose singole ed eventi individuali, quindi sull’empirismo.
Il Dio che usciva dalla visione del mondo di questo pensatore, era un’entità dotata di un potere ordinatore e creatore, che gli conferiva facoltà illimitate. La distinzione occamiana tra potenza assoluta e potenza ordinata proprie di Dio, apre orizzonti impensabili alla ricerca scientifica.
Potenza ordinata è ciò che Dio può fare in base a leggi da lui stesso stabilite, per suo insindacabile volere. Potenza assoluta è invece la libertà per il Creatore di compiere qualsiasi intervento sul terreno della natura secondo il suo intendimento, concedendo anche la libertà al creato di costituirsi in realtà diverse dall’intendimento primario di Dio. La possibilità che viene concessa alle cose di comportarsi in modo indipendente dalla volontà divina è alla base di due concetti che segneranno il futuro della ricerca scientifica:
· se “Dio può fare anche ciò che non vuole fare”, la natura è libera di costruire una mondo ed una realtà che si pongono in modalità oggettiva ed autonoma allo sguardo conoscitivo dell’uomo;
· se le cose della natura possiedono una loro autonomia, dopo l’atto creativo assoluto di Dio, che è limitato solo dal principio di contraddizione, ne deriva che la realtà naturale è possibile e quindi pensabile e quindi immaginabile in modo autonomo, svincolata dal finalismo aristotelico;
Si apre così un panorama sterminato di possibilità d’indagine e di conoscenza per chiunque voglia investigare la natura. Dovranno però essere rispettati ed utilizzati gli strumenti rigorosi della logica, che Ockham adopera per evitare di cadere nel peccato mortale di ogni indagine intellettuale: la contraddizione.
Il principale di questi strumenti prende il nome di rasoio di Ockham, come scrive egli stesso: “entia non sunt multiplicanda sine necessitate”, frase che si può tradurre, interpretandola in modo traslato: “…i concetti che si esaminano in un’indagine non sono da moltiplicarsi senza necessità [per giungere alla verità]…”
Questa posizione logica viene ribadita più volte nell’opera di Ockham, con diverse parole, ma con un unico fine: il rispetto del principio di economia nel costituirsi di una definizione.
Il rasoio logico del pensatore inglese è tipico del procedimento diagnostico in medicina. Si tratta di un’operazione mentale che viene fatta in modo quasi automatico quando si visita un malato. Si esaminano varie possibilità, in base alle nozioni apprese con lo studio ed all’esperienza della casistica del medico e di quella altrui di cui si è avuta conoscenza. Poi, progressivamente, si arriva ad una diagnosi presuntiva, tagliando via, come rami secchi, tutte quelle ipotesi diagnostiche che non risultano suffragate dalle evidenze cliniche e strumentali. Il risultato finale cui si perviene, in certi casi in tempi per necessità brevi o brevissimi, come in un’urgenza, è la diagnosi. Probabilmente, l’eredità maggiore del pensiero di Ockham è la sua attenzione alla necessità di verificare con rigore il principio di causalità in ogni indagine:
“…perché qualcosa sia causa immediata è sufficiente che, quando si dà quella realtà assoluta, si dia l’effetto e che, quando essa non si dà, rimanendo identiche tutte le altre condizioni e disposizioni, l’effetto non si dia. Quindi ciò che sta in
relazione con altro in questo modo ne è la causa, anche se forse non è vero il contrario…”
da Guglielmo di Ockham, Odinatio, 1, d.45
Come si vede, in questo modo l’indagine causale appare svincolata per sempre da ogni teoria finalistica. L’ uomo può essere solo e libero davanti alla realtà ed indagarla attraverso la ragione che cerca delle cause a ciò che vede e si attiene alle prove, a queste soltanto. La religione e la teologia prendono un’altra e diversa strada, che è possibile percorrere solo con la fede nella rivelazione divina.
Anche se il sapere umano è contingente alla realtà osservata ed è in un certo senso relativo, rimane l’unico modo per avere una conoscenza la più attendibile possibile del mondo. Pragmatismo, realismo ed anche una piccola dose di sano scetticismo rendono il pensiero di Ockham singolarmente moderno, come una base solida da cui intraprendere un’indagine scientifica sulla natura. Ma alla metà del XIV secolo qualcosa d’ imponderabile si verificò e mise di nuovo in discussione molte conclusioni e conquiste della ragione.
Questo qualcosa viaggiava sulle navi genovesi che provenivano dalla penisola di Crimea. Nella loro stiva, oltre a merci più o meno preziose, si erano “imbarcati” ratti infestati da pulci portatrici del bacillo della peste. Erano gli ultimi mesi del 1347, quando la storia europea cambiò di colpo e la medicina ufficiale ed erudita dovette fare i conti, all’improvviso, con la malattia e la morte su di una scala di grandezza che non aveva mai conosciuto prima in modo così brutale e devastante. La peste mise ancora una volta in discussione molte certezze, rese più consapevoli gli uomini della precarietà della loro esistenza ed influenzò in vario modo la ricerca scientifica in campo medico.
Copyright: © 2007 Federico E. Perozziello
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