Filosofia e Medicina: una lunga storia in comune...
   
  Filosofia e Medicina
  La separazione della Medicina dalle altre Scienze
 



La Separazione della Medicina dalle altre Scienze

Introduzione

Si tratta di un enunciato molto impegnativo per questo capitolo. Cercherò di dimostrare come, tra la fine dell'Ottocento ed i primi anni del Novecento, sia avvenuto un progressivo ripiegarsi autoreferenziale della Medicina su sè stessa.
Il Metodo Sperimentale, derivato dalle scienze fisiche fu considerato l'unico metodo possibile per ottenere dei risultati scientifici attendibili, rinunciando però ad ogni controllo autocritico ed imparziale.




Gli studi di Louis Pasteur attraverso i quali lo scienziato francese demoliva la teoria della generazione spontanea furono letti da un chirurgo inglese di nome Joseph Lister (1827-1912). Lister lavorava in Scozia, ad Edimburgo, con tutte le frustrazioni e le incertezze che la chirurgia del tempo si portava dietro come retaggio. La mortalità post operatoria era infatti devastante alla metà dell’Ottocento. I chirurghi del tempo amavano operare negli anfiteatri anatomici degli ospedali, davanti ad altri medici o studenti in medicina che potevano osservare la loro tecnica e la loro abilità, consistente nel portare a termine l’intervento nel più breve tempo possibile. 

   Luis Pasteur

La rapidità era infatti una delle poche armi a loro disposizione. Senza la possibilità di effettuare trasfusioni, con un’anestesia inesistente o grossolana, senza alcuna precauzione igienica, con ferri puliti approssimativamente, la sorte del malcapitato paziente era quasi sempre segnata. Pochi giorni dopo la terapia chirurgica insorgevano infezioni devastanti, tra le quali la gangrena e la necrosi setticemica si segnalavano per la loro virulenza e gravità. Negli anni intorno al 1860 era stato scoperto l’acido fenico che venne inizialmente utilizzato per bonificare e ridurre gli odori nauseabondi delle fogne cittadine. Prendendo spunto dai lavori di Pasteur sulla fermentazione, Lister ritenne che anche la cancrena gassosa con cui era costretto a misurarsi dopo tanti interventi chirurgici fosse un fenomeno fermentativo. Nel 1865 trattò un caso disperato, un paziente con la frattura esposta di una gamba, utilizzando delle nebulizzazioni di acido fenico sul campo operatorio. Il paziente sopravvisse. Confortato da questa novità Lister continuò nei suoi esperimenti, perfezionando le tecniche di pulizia e disinfezione delle ferite e della preparazione igienica del tavolo operatorio e dei ferri chirurgici. 


 Sir Joseph Lister


I risultati furono così incoraggianti, in termini di riduzione della mortalità post-operatoria, da poterlo mettere in grado di un articolo memorabile. Il suo lavoro, dal titolo di
Antiseptic Principle of the Practice of Surgery, venne pubblicato sul numero di The Lancet del 16 marzo 1867. Dopo le prime positive esperienze, Lister si avviò speditamente sulla strada di una sempre maggiore applicazione unita ad un perfezionamento del suo metodo. Lo denominò antisepsi, sottolineando come l’acido fenico fosse in grado di ridurre le complicanze settiche degli interventi chirurgici. In seguito un chirurgo tedesco, Ernst von Bergmann (1836-1907), propose l’utilizzo preventivo sui ferri chirurgici e sul materiale operatorio della metodica di Lister e tale intervento prese il nome di asepsi

  Hospital operating theatre used by Joseph Lister, c 1890
 
Il teatro operatorio del King’s College Hospital,
 utilizzato da Joseph Lister, alla fine del XIX secolo


Sarà quel chirurgo geniale che risponde al nome di William Halstead (1852-1922) ad introdurre infine l’utilizzo dei guanti di gomma come corredo indispensabile del chirurgo. Halsted convinse la Goodyear, la grande industria americana del settore, a produrre un tipo di lattice particolare per tali guanti, studiandone personalmente la forma e la consistenza ottimale. La sconfitta, o almeno la riduzione del potere patogeno dei germi sulle ferite rivoluzionò la chirurgia, rendendo possibili interventi chirurgici più efficaci e meditati ed invogliando schiere di giovani medici ad intraprendere questa professione. Si può affermare che gli anni tra la fine dell’Ottocento ed il primo decennio del Novecento furono determinanti nel segnare l’avvento della medicina moderna, così come oggi la intendiamo e come essa è stata strutturata. Furono anni eccezionali, in cui il progresso tecnologico che già era stato applicato ad altri campi della vita umana trovò modo di far germogliare innovazioni che suscitarono la meraviglia dei contemporanei e di cui ancora oggi viviamo le conseguenze dirette.
 



Nel 1895 il fisico tedesco Wilhelm Konrad Roentgen (1845-1913) scoprì casualmente che i raggi emanati da un tubo catodico potevano attraversare lo scheletro ed impressionare una lastra fotografica. La prima radiografia delle ossa di una mano da lui eseguita fu accolta come un autentico miracolo per il quale si scomodò anche il Kaiser Guglielmo II in persona. Nel 1903 l'olandese Willem Einthoven (1860-1927) trovò il modo di registrare l’attività elettrica del cuore e di applicare questi dati alle variazioni fisiopatologiche di tale organo: nasceva l’elettrocardiografia. Negli anni intorno al 1920, il medico tedesco Hans Berger (1873-1941) inventò un sistema di rilevazione delle onde elettriche generate dai neuroni e dal cervello. Il tracciato su carta che ne derivava prenderà il nome di elettroencefalogramma. La scoperta di tanti nuovi orizzonti e particolarità della pratica medica provocò la divisione istituzionale del sapere medico in diverse branche specialistiche, che si istituzionalizzarono per tramandare e condividere tra di loro un insieme di nozioni il più affidabile possibile. Se si tiene presente l’introduzione quasi in contemporanea in terapia dei primi farmaci capaci di inibire la crescita batterica, come i composti arsenicali scoperti da Paul Erlich, ci si renderà conto pienamente di quanto la medicina tra i due secoli sembrò possedere per i contemporanei un potere inarrestabile di mutare il millenario destino dell’uomo e di renderlo più forte e meno sensibile al dolore ed alla morte. Eppure tutto questo avveniva proprio in concomitanza con l’immane carneficina della Prima guerra Mondiale, la più inutile delle guerre, se mai ce ne furono di utili, che devastò l’Europa e aprì una crisi profonda nella società e della cultura Occidentali. Le distruzioni della guerra su scala planetaria e l’instabilità politica e la disgregazione sociale che essa introdusse portarono a riflessioni profonde sul concetto stesso di morte. Proprio nel momento in cui la schiavitù a questo destino sembrava parzialmente attenuarsi per i successi della medicina, l’uomo stesso introduceva nel suo vivere quotidiano il germe dell’autodistruzione grazie all’assoluta amoralità ed all’enorme potere distruttivo delle armi moderne che si confrontarono nel primo conflitto mondiale. 


Fu in quegli anni intorno al 1914 che avvenne la riscoperta di un filosofo danese un po’ dimenticato e che rivelò possedere nel suo pensiero una chiave per comprendere l’angoscia ed il disagio dell’uomo del Novecento davanti alla morte. Søren Kierkegaard (1813-1855) analizzò il percorso esistenziale attraverso cui il singolo essere umano veniva dapprima “gettato nel mondo” attraverso la nascita e poi organizzava la propria vita e la propria condizione di unicità attraverso le esperienze irripetibili della propria esistenza. Il filosofo danese sgombrò ogni equivoco dal concetto di morte. Questo era l’angoscia suprema, un avvenimento unico e non rappresentabile che riguardava il singolo e lui soltanto. L’ineluttabilità della morte e l’impossibilità di conoscere in anticipo il momento del suo giungere, permetteva che il pensiero di essa fosse presente, più o meno in modo consapevole, in ogni azione umana. La morte diventava così l’orizzonte esistenziale della condizione umana ed il presupposto perché l’uomo potesse aderire all’idea di una fede in Dio. 

 

     

  Søren Kierkegaard




Una fede di cui aveva molto bisogno quell’umanità massacrata nelle trincee del Carso o nel fango delle Ardenne o presa a cannonate nelle pianure della Polonia in quegli anni grigi di massacri in nome di ideali nazionalistici sempre più strumentali. Nello stesso periodo in cui la medicina stupiva il mondo con successi continui e l’opera di grandi ricercatori sembrava promettere un futuro non troppo lontano di affrancamento dal dolore, la Fisica stava conducendo da tempo un processo di revisione critica dei risultati cui era giunta. La Fisica Quantistica e la Teoria della Relatività avevano aperto delle crepe enormi nella modalità di affrontare i problemi posti dallo studio della natura attraverso gli strumenti della fisica classica di tipo meccanicistico e sperimentale, elaborata da Galileo Galilei ed Isaac Newton. Il modo con cui la fisica riusciva ad interpretare il mondo e la sua complessità diventava sempre più una conoscenza di tipo probabilistico. 




Il filo conduttore che attraversava queste molteplici esperienze di tanti ricercatori era l’idea che le scienze e le matematiche non fossero necessariamente vere. La rivoluzione concettuale di questo momento storico comportava l’affermazione che le scienze matematiche e fisiche non fossero vere in senso assoluto, ma unicamente esatte, come suggerirà Martin Heidegger qualche anno dopo. Le scienze potevano essere utili, potevano rivendicare una condizione di verità ontologica, ma non potevano più affermare, come aveva predicato Newton, di essere la dimostrazione armonica di un ordinamento superiore e di un’armonia universali. 


La complessità dei fenomeni naturali, la loro variabilità temporale, l’impossibilità di invertire il flusso dell’entropia termodinamica che portava verso il massimo disordine molecolare, comportavano l’impossibilità di ricostruire perfettamente a ritroso lo svolgersi degli eventi e resero consapevole buona parte della comunità scientifica dell’assoluta relatività epistemologica dei risultati da essa raggiunti.
Nulla di questo accadde per la Medicina. Questa era una scienza antica e contemporaneamente troppo giovane per accontentarsi della probabilità e ripiegarsi su sé stessa in un acceso dibattito epistemologico. Dopo secoli di approssimazione e di insuccessi clamorosi, valga per tutti gli esempi l’impossibilità di comprendere e controllare con razionalità un fenomeno come la peste, dopo le confusioni con la magia e l’alchimia, i medici riuscivano per la prima volta a fornire delle spiegazioni attendibili intorno alle cause di tante malattie. 


Attraverso questa conoscenza trovavano i rimedi idonei per curarle o almeno controllarle. Oggetto dei loro straordinari successi erano le malattie infettive, flagelli che per secoli avevano seminato morte e devastazione nella civiltà umana, facendo più vittime delle guerre. Si trattava di una comprensione magari ancora un po’ approssimativa, forse bisognosa di essere raffinata e migliorata nei rimedi proposti, ma che funzionavano nella maggior parte degli individui su cui questi venivano provati e sperimentati, migliorando significativamente la durata e la qualità della vita di milioni di persone.
 


Forse per spiegare in parte questo processo di separazione tra medicina scientifica e la filosofia e l’epistemologia, accorre rifarsi ad una definizione articolata che Immanuel Kant diede della Medicina stessa e dei suoi rapporti con la Filosofia. Il filosofo della scienza e storico della medicina tedesco Dietrich von Engelhardt ha individuato nel pensiero kantiano il punto cruciale di un’interpretazione filosofica della medicina. 

La Medicina per Kant era, come la Filosofia, una cultura di tipo morale (moralischeKultur), vale a dire un tentativo di trattare in modo morale la fisicità dell’uomo e del suo rapporto con il dolore e la morte. All’inizio del Novecento la Medicina parve dimenticare questo insegnamento. Accecata, in senso epistemologico, dai suoi stessi successi, dimenticò ogni altra modalità di interpretazione del suo campo di studi che non fosse quella meccanicistica e sperimentale.
 


Questo modo di studiare l’uomo e le sue malattie funzionava, magari sarebbe stato perfezionabile, ma sembrava ottenere risultati indiscutibili. La grande industria farmaceutica che stava nascendo non era troppo interessata ad un dibattito epistemologico, ma a prodotti che funzionassero e risolvessero i problemi, almeno in un orizzonte temporale ben delimitato, realizzando profitti sempre più consistenti. La fama, la ricchezza, il prestigio e la gratificazione sociale che circondarono molti celebri medici della seconda parte dell’Ottocento e del primo Novecento, pensiamo a Robert Koch o a


Certamente egli non poteva pensare che il moto delle molecole mosse dal calore e quello dei pianeti fossero la medesima cosa, ma fiducioso nelle leggi della matematica, Laplace si trincerò dietro l’affermazione che fosse solo l’ignoranza umana ad impedire di comprendere l’unitarietà e la logica di un fenomeno termico. Una qualche legge universale che regolasse tali fenomeni doveva pur esserci, nonostante la loro apparente e disordinata complessità. Il tempo e gli studi l’avrebbero resa manifesta ed evidente ed anche se nei movimenti caotici come quelli delle molecole riscaldate sembrava regnasse il caso, 


     
 
Il marchese Pierre Simon di Laplace (1749 -1827)

Laplace si sentì di affermare che si trattava solo di effettuare un sufficiente aggiustamento statistico e matematico e poi ogni variabile del sistema sarebbe stata compresa in un quadro generale. Jean Baptiste Fourier (1768-1830) nel 1822, dunque quasi negli stessi anni, divulgherà un suo libro che recava il titolo di
Théorie analytique de la chaleur. In questo volume affermerà che lo scienziato non doveva cercare delle ipotesi generali quando esponeva le sue teorie, ma unicamente individuare le cause in stretta relazione con il fenomeno studiato. Lo scienziato si sarebbe così trovato di fronte a cercare di capire leggi più semplici e naturali, di cui avrebbe conosciuto chiaramente le singole cause. Quanto alla loro unificazione, tutto sarebbe stato demandato alla matematica, ottenendo però in questo modo un piano di integrazione più teorico che sostanziale. Le idee di Fourier furono accolte con grande attenzione e considerazione dalla nascente filosofia positivistica. Auguste Comte stesso paragonò l’opera di Fourier a quella di Newton. Si trattava invece di un’apertura di credito logico-matematica nella forma, ma sostanzialmente metafisica nella sostanza, ad una interpretazione della realtà basata sulla credenza di una razionalità e prevedibilità intrinseca della natura. Le successive ricerche nel campo della Termodinamica e dell’Elettromagnetismo diedero luogo a dei considerevoli ripensamenti. 



Negli anni successivi al 1840 James Prescott Joule (1818-1889) dimostrò l’inesistenza del così detto fluido calorico, un’entità fisica mai ben definita che avrebbe dovuto fare da tramite nella cessione del calore da un corpo caldo ad uno più freddo. Attraverso l’Effetto Joule il calore prodotto veniva invece direttamente correlato all’energia impiegata. Si riuscì a distinguere tra
calore, come energia misurabile e temperatura, proprietà che regola il trasferimento di calore da un sistema ad un altro. Esito di questi studi e delle ricerche di Rudolf Clausius (1822-1888) e William Thomson (1824-1907),
detto anche Lord Kelvin, furono la formulazione dei due principi classici della termodinamica, che di seguito ricordiamo:

Joseph Lister, una cui statua è collocata tutt’ora in una piazza di Londra, costituirono il riconoscimento più evidente dell’importanza sociale che il ruolo del medico veniva ad assumere. A questo punto, sarà opportuno ricordarsi di chi comprese appieno tale processo mentre si stava svolgendo. 



Ricorderò una celebre e brillante commedia francese del 1923 di
Jules Romains (1885-1972): Knock ou le Triomphe de la médecine (Knock o il trionfo della medicina). Per chi non la conoscesse, ecco la vicenda della fortunata piéce. Il dott. Knock, sconosciuto ai più, ma fornito di una prestigiosa laurea in medicina, arriva un bel giorno nel villaggio di St. Maurice come successore del medico precedente, il dottor Parpalaid. Questi, stanco della routine in un villaggetto dove tutti godono di ottima salute, vuole trasferirsi in una grande città come Lione, che valorizzi la sua competenza professionale e gli dia modo di emergere professionalmente. Dai modi affabili, ma sicuro di sé e mosso da un’inquietante proposito: “…non esistono persone sane, ma solo malati inconsapevoli di esserlo…”, Knock ispira lentamente e costantemente in tutti gli abitanti del piccolo paese il terrore della malattia. Il suo studio si affolla sempre di più, magari approfittando delle visite e dei consulti del lunedì, attività che il bravo medico elargisce gratuitamente a scopo promozionale. Così, mosso da una relativa convenienza ed da una passione fervida ed instancabile per il suo mestiere e la sua arte, Knock finisce per scoprire nei suoi assistiti le malattie più strane e più rare e fornire loro una serie di diagnosi brillanti. Tutti lo rispettano, convinti della sua bravura come medico e del suo acume diagnostico. In breve le tranquille abitudini di vita del paese sono sovvertite da una serie di malattie presunte e più o meno reali. 




Oltre a Knock, anche il farmacista, l’accorto dott.
Mousquet, appare assai soddisfatto della situazione e collabora con il medico per circoscrivere i malanni e fornire l’assistenza necessaria a tanti bisognosi. Il povero dott. Parpalaid viene richiamato in paese dalla gravità della situazione, ma subirà anche lui il medesimo destino dei suoi assistiti. Si convincerà di essere malato lui stesso ed attenderà perplesso gli eventi sul finire della commedia. Sarebbe bastato poco per impedire a Knock di prevalere, magari pretendere una maggiore severità nei criteri diagnostici adottati, delle prove evidenti ed indubitabili delle malattie annunciate, ma la cortina fumogena del suo linguaggio ed il fascino personale con cui dispensa un sapere che promette soluzioni mirabolanti incantano gli abitanti del paese. Uno dei messaggi meno rassicuranti trasmessi da quest’opera letteraria è costituito dal fatto che convenga sentirsi malati e pensare a trovare qualcuno che risolva i propri problemi esistenziali piuttosto che lottare con le difficoltà della vita. 



E’ dunque meglio credere a qualcosa che a niente ed una medicina esercitata senza scrupoli e misura, senza rispetto e fiducia nell’equilibrio delle funzioni del malato e nella capacità naturale di guarigione, può sostituirsi alla religione ed alle ideologie, facendo leva sulla paura della morte e sul dolore dell’uomo. Questa è l’amara morale che possiamo trarre dalla commedia
di Jules Romains. Dobbiamo a questo punto considerare con attenzione le motivazioni e le cause che hanno deviato la medicina tra Ottocento e Novecento su di una traiettoria rigidamente scientifica, senza quasi ripensamenti autocritici sul proprio ruolo e sui propri limiti rispetto alle altre discipline. Come abbiamo accennato in precedenza, negli ultimi decenni dell’Ottocento e nei primi due del Novecento la matematica e soprattutto la fisica vivono un momento di grande ripensamento epistemologico. Esemplare a questo proposito è quanto avvenne per la Termodinamica. All’inizio del XIX secolo il marchese di Laplace aveva affermato che era possibile, in linea teorica, comprendere la meccanica dell’universo se si fosse potuto disporre di tutti gli elementi che entravano in relazione di tra di loro nel moto planetario e stellare. Anche se Laplace non era credente, si trattava di una grande apertura di credito fornita alle idee di Galileo e Newton. 



Soprattutto la visione del creato profondamente religiosa che Newton aveva sostenuto era alla base della concezione di un universo retto da una logica trascendente, in esso intrinseca, che l’uomo aveva il compito di svelare. Le leggi della natura erano dunque già perfettamente inscritte nel creato e facevano funzionare la macchina-mondo in attesa che qualcuno fosse così acuto da poterle scoprire. Indirettamente, secondo Newton, questa visione ideologica avrebbe portato lo scienziato a rendersi conto che esisteva un’intelligenza superiore che aveva già ordinato e previsto tutto. Tuttavia, Laplace stesso si accorse di qualcosa che non quadrava nello studio dei fenomeni termici. 

 - il primo principio si basava sulle esperienze di James Prescott Joule e sanciva l’equivalenza tra l’energia utilizzata ed il calore generato e di conseguenza la relazione lineare che si colloca tra calore e lavoro. Il primo principio stabiliva l’equivalenza tra le varie forme di energia, cioè il principio generale di conservazione dell'energia. Un corpo poteva perdere una parte della sua energia meccanica se acquistava energia sotto forma di energia termica. Un blocco che scivolasse su di un piano inclinato, attraverso l’attrito perdeva energia potenziale, non acquistando una corrispondente quantità di energia cinetica. Tuttavia si riscaldava, in quanto la sua energia interna aumentava in proporzione.

        -   il secondo principio, che è la conseguenza delle ricerche di Lord Kelvin e Clausius, afferma che la dispersione di energia che avviene tra due sistemi a temperatura differente darà luogo ad un aumento di Entropia. Questa può essere definita come una funzione che misura il grado di disordine molecolare di un sistema. La sua conseguenza pratica, dovuta alla dispersione di calore, è che non è possibile costruire motori dal rendimento energetico pari al 100% dell’energia impiegata, perché una parte dell’energia stessa non sarà mai riutilizzabile dal sistema che l’ha generata.

  
       Lord Kelvin

Il termine Entropia, che fu coniato da Clausius e recava in sé un elemento rivoluzionario. Se le molecole di un sistema sottoposto a riscaldamento assumevano comportamenti che non erano prevedibili secondo le formule della fisica classica, ne conseguiva che la ricerca scientifica doveva in fin dei conti accontentarsi di valutare fenomeni di tipo probabilistico e non sempre assolutamente certi e riproducibili con esattezza. In più se si ammetteva che le molecole fossero libere di disporsi e muoversi come meglio ritenessero, l’aspetto finalistico della scienza e della fisica classica, la presunzione newtoniana di scoprire un disegno superiore e logico in tutto il creato, diveniva una mera illusione, un’ipotesi consolatoria non sostenuta da dati di fatto. Il sistema universo dunque si muoveva e funzionava, ma sembrava purtroppo farlo a sua discrezione, infischiandosene delle aspettative di chi lo stava studiando. 

Quest’ipotesi portò ad accese polemiche tra i sostenitori della fisica classica e quelli dell’originalità di questi nuovi elementi forniti dalla Termodinamica. In un certo senso ci si dimenticava di un’antica lezione formulata da Immanuel Kant e che sarà bene rileggere:

“…Non è una cosa strana… dopo che una scienza ha subito una lunga elaborazione, quando si pensa di essere giunti chissà a quali meravigliosi risultati, che venga uno e ponga la questione se e come tale scienza sia in genere possibile. Perché la ragione umana è così pronta nelle sue costruzioni che già più volte ha eretto l’edificio e poi ha dovuto di nuovo demolirlo per vedere come erano costruite le fondamenta… Alcuni, nella superba coscienza del loro antico e perciò creduto legittimo possesso, con i loro compendi metafisici alla mano, guarderanno verso colui con disprezzo: altri, che non sono capaci di vedere se non ciò che è uguale a ciò che altre volte hanno veduto, non lo comprenderanno…”

da Iammanuel Kant,
Prolegomeni ad ogni metafisica futura,

                       Milano, 1995.

Nei primi anni del Novecento altre due importanti rivoluzioni scientifiche minarono definitivamente la teoria meccanicistica propria della fisica classica newtoniana: la Teoria della Relatività e quella della Fisica Quantistica. Senza entrare nei particolari, che esulano dagli scopi di questo saggio, bisogna sottolineare come queste due teorie affermassero concetti dalle conseguenze ineludibili. Con la Teoria della Relatività Albert Einstein (1879-1955) dimostrò che la meccanica classica del moto dei corpi nello spazio si basava su due presupposti teorici errati, basati sul fatto che la misura del tempo fra gli eventi osservati fosse indipendente dal moto dell'osservatore e che la misura dello spazio fra due punti di un sistema di riferimento fosse indipendente anch’essa dal moto dell'osservatore stesso. Secondo quanto scoperto da Einstein le leggi in base alle quali avvenivano i fenomeni della fisica erano stabili, ma lo spazio ed il tempo che interessavano i fenomeni osservati erano invece relativi al moto ed al sistema di riferimento in cui si trovava l’osservatore che li stava studiando. Negli anni intorno al 1901 poi, un altro fisico tedesco di nome Max Planck (1858-1947), scoprì che lo scambio energetico tra la materia e la radiazione elettromagnetica che interagiva con essa avveniva in modo tale che l’energia in atto veniva assorbita od irradiata secondo quantità definite o dei multipli esatti di queste grandezze, che presero il nome di
quanta



L'energia di un quantum dipendeva dalla frequenza della radiazione (v) e da una costante (h), denominata in seguito
Costante di Planck (E=hv). Nasceva così la meccanica quantistica, che diede luogo ad un complesso di teorie fisiche formulate nella prima metà del Novecento, che descrivevano il comportamento della materia a livello microscopico. Essa permetteva di interpretare e quantificare fenomeni che non potevano comunemente essere spiegati ricorrendo alla meccanica classica. Caratteristica fondamentale della Meccanica Quantistica era il fatto che in essa lo stato e l'evoluzione di un sistema fisico venissero descritti in maniera intrinsecamente probabilistica. Spesso si ricorreva ad una visualizzazione del comportamento di una particella di materia in termini di funzione d'onda oppure di onda di probabilità


Mentre la Fisica si rendeva così conto di dover intraprendere un diverso percorso conoscitivo e di dover abbandonare una strada lastricata da troppe certezze e dalla consolatoria consapevolezza di un disegno progettuale per tutto l’Universo, la Medicina di inizio secolo imboccò senza alcun ripensamento una deriva meccanicistica e sperimentale. Si trattava di una visione del mondo e della scienza che avrebbe comportato l’adesione incondizionata di generazioni di medici ad alcuni presupposti ideologici fondamentali ed abbastanza semplici che devono ora essere ricordati:

  •     il metodo sperimentale e la sua affidabilità e riproducibilità sono alla base della conoscenza dei fenomeni biologici;
  •      le funzioni del corpo umano sono studiabili e riproducibili in laboratorio e negli animali da esperimento come base per un numero infinito di prove sperimentali intorno ai fenomeni relativi alle funzioni fisiologiche ed al verificarsi delle alterazioni patologiche;
  •      la malattia è dovuta ad alterazioni della normale fisiologia del corpo umano;
  •     le terapie sono basate sul riconoscimento di un rapporto certo di causa/effetto nel verificarsi di un determinato fenomeno biologico. 
    Le terapie saranno basate su di un intervento capace di annullare gli effetti di tali cause patogene o di prevenirlo, modificando i parametri biologici dell’organismo.


    Come si vede, si trattava di una visione ideologica e programmatica di tipo strettamente meccanicistico. Il corpo umano veniva considerato come una macchina estremamente complessa, ma pur sempre una macchina basata su delle regole di funzionamento prevedibili. Basterà conoscere sempre più approfonditamente una serie di fattori per poter prevedere con sufficiente sicurezza sia i termini del funzionamento normale dell’organismo che le modalità del verificarsi di un guasto. De la Mettrie ed  il marchese di Laplace potevano ritenersi soddisfatti. Il convincimento di poter comprendere un insieme complesso allo studio, una volta conosciuti tutti i fattori in gioco e tutti gli elementi da cui era costituito tornava alla ribalta nell’esame dei fenomeni biologici. Veniva accettata, tale convinzione, proprio quando una sicurezza analoga cominciava ad essere abbandonata dalle altre discipline scientifiche...

 

 
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a cura di Federico E. Perozziello Questo sito web è stato creato gratuitamente con SitoWebFaidate.it. Vuoi anche tu un tuo sito web?
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