Filosofia e Medicina: una lunga storia in comune...
   
  Filosofia e Medicina
  il rapporto medico-paziente
 



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Relief Plaque from Epidauros

(Epidauro, Tempio di Asclepio, IV sec. a.C.)




      Il rapporto medico paziente 
  tra tradizione ed evoluzione
 
        
Copyright: © 2006 Federico E. Perozziello
 

 


All’origine stessa della pratica della medicina è presente una riflessione sulla natura e sui processi culturali e biologici che portano a confrontarsi con la realtà costituita dalla malattia e dal paziente, l’essere umano sofferente ed ammalato. La malattia e la morte segnavano ed indicavano l’irruzione della casualità, come forza incontrollabile, nell’esistenza dell’individuo. Il Caso, per gli antichi Greci, era un fattore di massimo potere sulla realtà. Era un fattore di angoscia e di terrore profondi, tanto che venne creata, nella loro simbologia mitologica, una divinità che equilibrasse la sua azione, cui diedero il nome di Necessità (Ananche). La Necessità aveva un potere superiore a quello degli stessi Dei, serviva a contrastare il caso, a delimitare il suo effetto di disordine, incertezza, ansia ed insicurezza sulla vita degli uomini. (1) L’Ananche era quindi un fattore di controllo dell’angoscia esistenziale, che permetteva di dare un senso all’esistenza e di sopportare la malattia e la morte o almeno, di farsene una ragione.
All’origine del rapporto tra medico e paziente e della loro interazione con la malattia, è presente un atteggiamento di fondo che potremmo definire come il Paradigma terapeutico dello Stregone. Questa modalità di relazione, è così articolata:

 

la malattia è dovuta a fattori soprannaturali riconoscibili;

la terapia si basa sul riconoscimento di questi fattori e su misure per contrastarli;

• la guarigione è merito dello stregone, la morte è colpa dello stregone, ma anche di forze che possono essere incontrollabili;

lo stregone bravo è quello che guarisce spesso… e che sbaglia di meno…

 

La medicina nasce come scienza sulla base della riproducibilità, caratteristica fondamentale delle scienze in genere e di quelle biologiche in particolare. Grazie alla riproducibilità, nell’ antica Grecia la medicina riesce ad organizzarsi in scuole, che tramandano un sapere con grandi elementi di empirismo, ma che lo affrancano lentamente dalla magia. Nel confronto con gli stregoni ed i guaritori, il medico antico comincia ad avvantaggiarsi perché può contare su di un bagaglio di informazioni condivise e trasmesse dal maestro ai discepoli. Ippocrate (460-370 a.C.), è la figura dominante di questo periodo. Un personaggio reale e dotato di qualità di tipo etico e filosofico, che sono sopravvissute attraverso i secoli ai suoi insegnamenti di natura strettamente medica.

Il fondamento della medicina ippocratica era basato sulla certezza della capacità di guarigione propria dell’organismo. Ippocrate fece affidamento sulla forza guaritrice della natura, la Physis vitale di ogni singolo essere umano, capace di conservare il più a lungo possibile l’equilibrio delle funzioni biologiche e della psiche. La medicina di Ippocrate nasce dunque dall’unione del ragionamento logico, che analizza l’esperienza, la memorizza, l’utilizza e la trasmette attraverso l’insegnamento. Nel rapporto medico-paziente della medicina ippocratica, i due pilastri portanti erano la philia, cioè l‘amicizia e l'agàpe, l'affetto per il malato. (8) Prerequisito indispensabile del buon medico, in lingua greca iatròs agathòs, doveva essere non solo la tecnofilia, l'amore per l'arte medica, ma anche la filantropia, l'amore per l'uomo in quanto tale. Ricordiamoci che la medicina, per gli antichi Greci era un’arte, cioè una Tecne, in quanto basata su di un insegnamento teorico e su di un corrispettivo pratico. Molto differente quindi dal concetto di arte come occupazione estetizzante ed irrazionale, come viene di solito intesa. Secondo Aristotele, che era figlio di un medico, il rapporto medico/paziente era nato come un’ amicizia tra disuguali. La ricerca di un'unità di intenti tra medico e paziente per  riacquistare o conservare la  salute, comportava uno sforzo per determinare dei fini comuni, che si giustificavano attraverso la convinzione dell’esistenza di un bene comune, costituito dalla conservazione della vita. (2)

Nessuna delle due parti aveva, a priori, la misura identica di questo bene. Questa misura si costituiva nel dialogo e si realizzava nel reciproco adattarsi dell'uno all'altro, attraverso la conoscenza. Si trattava di un'amicizia, ma era anche un incontro di esistenze e di esperienze tra il medico ed il suo paziente. Anche se in Aristotele il rapporto del medico con il malato poteva definirsi all’origine squilibrato ed asimmetrico, poiché al sapere e potere del primo, faceva da contrappunto la dipendenza passiva del secondo, questa condizione era poi riequilibrata dai doveri, di cui il medico responsabilmente si caricava, per garantire al paziente di essere adeguatamente curato. Il concetto stesso di malattia iniziò a variare con il passare dei secoli. (3) 
Nel Medioevo, veniva utilizzato il termine latino di infirmitas, che poteva rivestire anche significati positivi. La sofferenza, il dolore e l’alterazione visibile del corpo, riproducevano le sofferenze del Cristo crocefisso, nell’essere del malato. Questi rivestiva un duplice ruolo: da un lato testimoniava, con la corruzione del proprio corpo, la presenza di colpe di cui la malattia si faceva dichiarazione e manifestazione evidente.
Dall’altra, attraverso la sua imitazione del Cristo sofferente, poteva pervenire alla guarigione dell’anima, prima che del corpo. Anche la figura del Salvatore assumeva una doppia potenzialità: quella di medico dell’anima e quella di malato Lui stesso, che si era fatto carico dell’imperfezione e della sofferenza umana per donare la salvezza all’uomo. La morte poi non era vista come un termine irrevocabile, ma come l’inizio di una nuova vita, anzi della vita stessa, vicino alla gloria di Dio e lontana per sempre dal dolore della malattia. (3, 5)

La medicina iniziò ad utilizzare con prudenza i risultati dell’uso della ragione ed a distaccarsi dagli insegnamenti degli Antichi. Bisognerà aspettare il Rinascimento e l’opera innovativa di figure straordinarie, come Teofrasto Paracelso ed Andrea Vesalio, per avere una significativa rottura con le posizioni del passato. La nascita della scienza sperimentale nel Seicento e la sua evoluzione successiva, porteranno ad una diversa figura del medico ed a una sua evoluzione verso un Paradigma Terapeutico di tipo Fisiopatologico, che possiamo descrivere in questo modo:

 

● la malattia e’ dovuta ad alterazioni della normale fisiologia del corpo umano;

● la terapia si basa sul riconoscimento di queste alterazioni e su adeguate misure per contrastarle. Nascono le terapie di tipo causa/effetto;

● la guarigione è merito del medico, la morte e’colpa del medico;
● il medico bravo è quello che guarisce spesso… e che sbaglia di meno…

 

 

A cui seguirà, alla fine del Settecento, un Paradigma terapeutico di tipo Illuministico-razionale:

 

         ●   la malattia e’ dovuta a fattori naturali   riconoscibili: ad esempio, 
               le infezioni;
         ●   la terapia si basa sul riconoscimento di questi fattori e su terapie
               basate sulle
cause delle malattie 
               e su appropriate misure per contrastarle;
         ●   la guarigione è merito del medico, la morte è, a volte, colpa 
               del medico;
         ●   il medico bravo è quello che guarisce spesso… e che sbaglia
               di meno…

 

 

 

Oggi possiamo definire la medicina come una professione che combina la scienza (e la conoscenza) del corpo umano, un metodo scientifico condiviso per ottenerla e l’arte (la Tecne) di esercitarla. Il suo fine essenziale, come nel passato, è comprendere i problemi dell’essere umano malato, curarlo e dargli conforto. Sono stati fatti grandi progressi nella comprensione dei meccanismi patogenetici, delle basi genetiche e molecolari delle malattie. Grandi progressi nelle indagini diagnostiche e nelle terapie, specie quelle contro le infezioni, attraverso un passaggio da una Scienza osservazionale, basata sull’anamnesi, ad una Scienza interventista, figlia della filosofia positivistica dell’Ottocento, che pensa di poter cambiare la realtà e che questo cambiamento sia possibile, necessitando solo del tempo e di maggiori risorse disponibili. (14)

Con una certa semplificazione, possiamo dire che si è passati da una scienza osservazionale ed aneddotica, perché basata sull’esperienza professionale personale e di pochi maestri, a grandi trial clinici randomizzati, per la verifica dell’efficacia delle terapie. (15) Si tratta della Medicina Basata sull’Evidenza (EBM), che genera Linee Guida per la gestione delle patologie e dei comportamenti dei medici stessi, la misurazione obiettiva dell’efficacia terapeutica, morbilità, qualità di vita, outcomes del paziente,ecc... (6, 9)  Il rapporto tra medico e paziente, rimane però una relazione umana, che si basa sulla fiducia e sulla stima del curante e che dipende da molti fattori, legati all’incontro tra le molteplici personalità, sia dei medici che dei pazienti.

         

 

Gli studi del sociologo americano Talcott Parsons, intorno al 1950, hanno contribuito a far luce ed a descrivere i condizionamenti sociali cui questo rapporto è esposto. 
                                              

Talcott Parsons













Talcott Parsons

Secondo Parsons, la malattia è   considerata come una devianza istituzionalizzata rispetto ai ruoli necessari al funzionamento del sistema sociale. Il compito del medico è quello di accertare, controllare e reintegrare nel suo ruolo sociale il paziente, restituendolo ad una vita attiva. La malattia è ritenuta un problema per la persona ed è riconosciuta dalla struttura sociale unicamente se è legittimata da un portatore di competenze istituzionalizzate e certificate: il medico.(12) 
Sempre secondo T. Parsons, la persona che viene caratterizzata dal medico come malata può essere momentaneamente esonerata dai suoi normali ruoli, ma sempre dentro un insieme di obblighi e di costrizioni.
Attraverso la pratica delle cure mediche, entrano in gioco i ruoli e le funzioni proprie del contesto sociale di riferimento dell’ammalato. Parsons definisce un sistema di aspettative istituzionalizzate, proprio del ruolo del malato e lo descrive in quattro aspetti principali: (12, 13)

 

 

 

1)                      l’esenzione, per il malato, dalle responsabilità ordinarie del proprio ruolo sociale, esenzione che è naturalmente relativa alla natura ed alla severità della malattia. Il medico assume il ruolo di organo diretto di legittimazione. Il fatto di essere abbastanza ammalato da evitare gli obblighi sociali (lavorare, badare ai propri cari, esercitare i diritti civili, ecc.), può divenire non soltanto una caratteristica ovvia della persona ammalata, ma anche l’assunzione di un diverso ruolo, che viene imposto dal contesto sociale di appartenenza. La gente è spesso riluttante ad ammettere di essere ammalata e sono gli altri attori sociali allora a dire al malato che egli dovrebbe starsene a letto. Questa legittimazione istituzionale esercitata dal medico, svolge anche la funzione di proteggere contro una possibile simulazione della condizione di malato.

 

 

2)      Un secondo aspetto connesso al precedente, consiste nel fatto che non ci si può attendere che la persona malata si faccia coraggio a guarire da sola, attraverso un proprio atto decisionale o di volontà. Da questo punto di vista, sempre secondo Parsons, il malato viene esentato da ogni responsabilità. All’atto pratico, egli si trova a dover essere curato ed il suo processo di guarigione può anche essere spontaneo, tuttavia, fino a quando la malattia persisterà, l’ uomo malato può fare poco da solo. Deve quindi accettare l’ aiuto a guarire fornitogli dal medico.

 

 

 

 

3)      Il terzo aspetto delle teorie di Parsons, definisce lo stato del malato stesso come qualcosa di per sé indesiderabile, con la conseguenza di dover aderire ad un obbligo sociale a volere stare bene. Il contesto sociale che circonda il malato svolge la funzione di delimitare un’area di benessere normale, rispetto ad un’ area di malattia non desiderabile e connotata ed evidenziata con segnali di diversità. L’elemento di alienità, che viene inserito nella consapevolezza del sé della persona malata, esercita una potente spinta all’omologazione ed al desiderio di guarire, di essere come tutti gli altri.

 

 

4) Come quarto ed ultimo aspetto, Parsons sottolinea un elemento  connesso ai precedenti e costituito dall’obbligo, in rapporto alla gravità della condizione del malato, di cercare un aiuto tecnicamente competente (il medico), per raggiungere la guarigione. Il ruolo del malato e del paziente si intrecciano tra di loro, in una struttura complementare di ruolo sociale. In sostanza, secondo Parsons, il problema del controllo sociale diventa soprattutto un problema di accertamento dei fatti (la malattia) e di delimitazione dei confini (ruolo sociale), occupati dal malato. Nel compito del medico è presente una componente strutturale di fondo, costituita dall’orientamento del proprio lavoro in vista del benessere della collettività.

 

 

La società ha edificato un rapporto fiduciario tra i professionisti incaricati della conservazione della salute (i medici) ed il controllo sociale sulla malattia. 
Alla base di questo binomio sta il rapporto di fiducia tra medico e paziente e questo elemento giustifica le forme di istituzionalizzazione della relazione interpersonale tra il professionista medico ed il suo paziente. Fuori da questa relazione esiste il rischio che si venga a costituire una subcultura della malattia e del malato, che sfugga al controllo istituzionale esercitato dalla società. 
Una subcultura dove prolificano figure sanitare a scarso controllo delle loro qualità professionali, guaritori, imbonitori mass-mediatici, salute fai da te… . (13) 
Il ruolo sociale del medico riveste invece alcune caratteristiche tipiche, che possiamo definire come:

 

 

a)     una specificità delle funzioni esercitate dal medico stesso;

 

b) un utilizzo, sempre auspicabile, della neutralità affettiva nei confronti dei suoi assistiti;

 

c)  un orientamento delle sue azioni in funzione del benessere della collettività di cui egli fa  parte.

 

 

Attraverso queste connotazioni, il medico viene messo in grado di conoscere gli affari privati od i legami affettivi del suo paziente, in una misura sufficiente per svolgere la propria funzione. Definito in questo modo il proprio ruolo, si possono superare o ridurre al minimo le resistenze sociali che sarebbero altrimenti di ostacolo alla possibilità di compiere, da parte del sanitario, il suo lavoro di tutela della salute. La professione viene ad essere investita di aspettative, di vincoli, di diritti e doveri. (7) 
Il medico, per esempio, ha la possibilità di intervenire in modo anche doloroso sul corpo del proprio paziente, attraverso la chirurgia ed anche quella di pretendere la confidenza profonda del malato. Un’altra specificità fondamentale del medico è quella di esercitare un atteggiamento di protezione nei riguardi dei malati che gli sono affidati. Tuttavia il medico dovrebbe sempre proteggersi o pretendere di essere protetto, nei confronti dei coinvolgimenti emotivi sollecitati dal paziente e particolarmente dai suoi familiari. Questi possono attirare il medico in particolari reticoli di amicizia, reciprocità, rapporti di attrazione sessuale ecc., che devono essere sempre tenuti presente e che i medici devono essere preparati ad affrontare con equilibrio e saggezza.
Dopo queste considerazioni, si può tentare di definire un Paradigma terapeutico moderno e consapevole, caratterizzato da alcune notazioni anche epistemologiche importanti:

 

  

o       la malattia è un processo caotico di estrema complessità, ad esito a volte imprevedibile;

 

o       non e’ possibile prevedere l’effetto di una terapia sulla base di sole considerazioni di fisiopatologia, come ogni medico ben conosce dalla sua esperienza clinica;

 

o       il comportamento delle malattie può essere descritto solo in termini probabilistici (secondo l’ipotesi Bayesiana), anche se questa verità non esclude il dovere di arrivare al massimo delle conoscenze certe e condivise possibili in ogni caso clinico;




Anche se l’effetto di una terapia può essere descritto solo in termini probabilistici, tuttavia, questa consapevolezza non esclude dal dovere di conoscere, cercare ed infine applicare la migliore delle terapie possibili in quello specifico caso clinico.

Su questa complessità, che sottende il processo di relazione tra il medico ed il suo paziente, è venuta a calare, con l’evoluzione storica e sociale che si è avuta negli ultimi cento anni, una maggiore consapevolezza del malato riguardo ai suoi diritti ed alla necessità che questi vengano rispettati in ogni momento della sua vita. (11, 16) 

Ronald Myles Dworkin

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Le idee del filosofo e docente di diritto americano Ronald Myles Dworkin, hanno influenzato la modalità di porsi del paziente nei confronti del suo medico e dell’istituzione sanitaria. Teorico di un liberalismo accentuato, basato sui diritti civili dell’individuo, le idee di Dworkin si basano sulla dignità dell’individuo e sui rapporti di questi con la struttura sociale, garante della sua condizione di uguaglianza. 
Il liberalismo, per R. Dworkin, deve essere basato su di una considerazione degli individui come eguali ed in una teoria delle istituzioni giuridiche e politiche, come organi finalizzati a garantire il diritto di ognuno ad eguale rispetto. (4) 
Il liberalismo diventa allora una teoria dei diritti presi sul serio, come recita il titolo di un’opera dello stesso Dworkin:

 

 

“… La maggior parte delle leggi che diminuiscono la mia libertà, vengono giustificate per motivi utilitaristici, per essere state emanate in funzione dell'interesse generale o per il benessere generale…”

 

 

 “…il cittadino ha il diritto di vivere e morire alla luce delle sue convinzioni religiose ed etiche, delle sue idee sul perché la sua vita abbia valore e dove risieda quel valore…”

 

 

 

La visione ideologica di R. Dworkin hanno influenzato l’applicazione del concetto di Living will. Questo consiste nell’ atto con il quale una persona, nel pieno possesso delle proprie capacità mentali, esprime la volontà o incarica terzi di eseguire le sue volontà, in ordine a trattamenti ai quali vorrebbe o non vorrebbe essere sottoposta, nell’eventualità in cui, per effetto del decorso di una malattia o di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso od il proprio dissenso informato.

Il concetto di Living will (volontà del vivente), fu introdotto nel 1906 negli U.S.A, da una legge dello stato dell’Ohio. Solo negli anni Sessanta cominciò a diffondersi a tal punto nella pratica medica americana, da essere disciplinato da una legge federale del 1991 (Patient self determination act), cui si sono adeguati i singoli stati. In Europa il riconoscimento legislativo è arrivato intorno agli anni Novanta, ma solo in alcuni paesi, come l’Olanda e la Danimarca. 
Si deve aspettare il 2002 perché il Belgio contempli la Declaration anticipée, all’interno del Titolo III della legge del 28 maggio sull’eutanasia e la Spagna la preveda, con le Instrucciones previas, all’art. 11 della legge n. 41, sull’autonomia del malato e sui diritti e sulle obbligazioni in tema d’informazione e di documentazione clinica. 
Non vogliamo, in questa sede, entrare in una discussione dettagliata delle problematiche etiche e morali, sollevate dall’autodecisione del malato e dalla sua interazione con i doveri del medico. Si tratta di un argomento complesso, che esula dai fini di questo articolo. Citiamo il concetto di Living will perché esso sta a ricordarci come,
alla base di tutta la professione del medico, debba esistere una comunicazione efficace tra questi, il paziente e la sua famiglia. La comunicazione deve essere considerata  una funzione fondamentale, da non trascurare mai.

Instaurando un processo di comunicazione interpersonale corretto ed efficace con il paziente, il medico può non solo ottenere delle informazioni utili per indirizzare il percorso diagnostico e terapeutico, ma anche suscitare un buon livello di soddisfazione e di consenso, che finisce per incidere positivamente sui risultati clinici complessivi. Forse è giunto il momento di contribuire positivamente a risolvere la crisi di identità in cui versa la medicina contemporanea, agendo sul versante culturale della preparazione del medico e lavorando in modo aperto, in questo processo, a quelle che sono le aspettative della società civile.

L’eccesso di tecnica sta costringendo il medico a porsi sulla difensiva, davanti a pazienti che pretendono un prodotto di salute garantito. Tutto questo avviene a spese di una disciplina scientifica, la medicina appunto, che ha connotazioni epistemologiche di tipo fortemente probabilistico. (10, 14) 
Il Principio di Indeterminazione, con cui Werner Eisemberg ottenne il premio Nobel per la fisica nel 1932, ha fatto luce sul relativismo delle misurazioni in un campo scientifico considerato di grande autorevolezza, come la fisica sperimentale e la meccanica quantistica. Non si vede allora perchè il medico non debba informare correttamente l’opinione pubblica ed i media ed educarli a non aspettarsi sempre e comunque la guarigione dall’evento malattia. Questo perché, il rapporto tra uomo e tecnologia è destinato a raggiungere, prima o poi, un break-event irreparabile, in cui l’Intelligenza Artificiale (I.A.) sarà molto più rapida, efficiente ed economica a raggiungere la diagnosi ed a stabilire la terapia. Dove può essere allora ricollocata la priorità del ruolo del medico, dove trovare nuovi ed insostituibili spazi per la sua professionalità ed il suo carisma? 
Nella Medicina odierna appare indispensabile un diverso approccio al malato, anche di tipo umanistico. Curare un uomo malato e non una malattia, un uomo più serenamente partecipe del rapporto di amicizia e di empatia che lo lega al suo medico. Un uomo paziente, consapevole dei fondamenti etici di una medicina sempre più incisiva sulla durata e sulla qualità della vita, ma informato anche dei suoi limiti e dei diritti della sua persona. 

Il medico deve comprendere che, senza un approccio anche umanistico alla sua professione, l’applicazione della moderna scienza medica rimane sub-ottimale, se non addirittura dannosa. Questo perchè nessuno è in grado di controllare la rapidità degli sviluppi della tecnica in senso etico positivo, senza una consapevolezza acquisita, attraverso un processo di maturazione culturale, che tenga conto dei vari fattori biologici, psicologici, sociali, tutti profondamente umani ed interconnessi tra di loro, che sono in gioco nel rapporto tra medico e paziente.

 Copyright: © 2006 Federico E. Perozziello 

              


                    Bibliografia essenziale

1)  Abbagnano N., Storia  della Filosofia, Torino, 1966
2)  Aristotele, Opere, Roma-Bari, 1973. 
3)  Crisciani C., La medicina nel Medioevo, Roma, 1993. 
4)  Dworkin R. M., I diritti presi sul serio, Bologna, 1982. 
5)  Firpo L., Medicina medievale, Torino, 1983. 
6)  Greenhalgh T., Evidence Based Medicine-Le basi, Torino, 1998. 7)  Izzo A., Storia del pensiero sociologico, Bologna, 1994. 
8)  Lain Entralgo P., Il medico ed il paziente, Milano, 1969.
9)  Liberati A., La medicina delle prove di efficacia:     potenzialità e limiti della EBM., Roma, 1997. 
10) Lentini L., Il Paradigma del Sapere. Conoscenza e teoria della conoscenza nella epistemologia contemporanea, Milano, 1990. 
11) Morpurgo G., La logica dei sistemi di regolazione biologica, Torino, 1997. 
12) Parsons, T., Il sistema sociale, Torino, 1995. 
13) Parsons, T., La struttura dell’azione sociale, Bologna, 1987. 
14) Rodolfi F., Singole teorie o programmi di ricerca? Le immagini della scienza di Popper e Lakatos, Milano, 2001. 
15) Sackett D.L., Richardson W.S.,Rosemberg W. et al., Evidence  based medicine: how to practice  and teach EBM. New York, Edimburgh, 1997. 
16) Spinsanti S., Chi ha potere sul mio  corpo? Nuovi rapporti tra medico e paziente, Roma, 1999.

 
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a cura di Federico E. Perozziello Questo sito web è stato creato gratuitamente con SitoWebFaidate.it. Vuoi anche tu un tuo sito web?
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